Oggi ne parla anche DeBiase: “La dimensione pubblica è il grande territorio nel quale emergono i materiali di idee e informazioni con i quali si formano le decisioni collettive ed è bellissimo che si allarghi – con i media sociali – al contributo attivo di molte più persone. Ma quelle persone devono poter scegliere che cosa delle loro idee e personalità è pubblico e che cosa è privato. E questo avviene soltanto grazie alla loro consapevolezza.”
Questo perché Buzz ha osato molto. Rende visibili le cerchie sociali basandosi sui contatti frequenti della Gmail, dimodoché tutti possono a partire dal mio profilo venire a conoscenza di chi frequento, e la gente ti giudica a seconda di chi frequenti. Metti che scambi mail con uno zoppo, molti penseranno che il tuo vero nome sia Claudio.
Ma il pensiero della privacy non mi preoccupa, di certo già ora non può più essere normato dall’alto stabilendo la legittimità di utilizzare immagine pubbliche di cose e persone, proprio perché il concetto di pubblico (una piazza, un social network) è radicalmente cambiato. Giustamente, serve consapevolezza. So di essere in pubblico, e agisco di conseguenza: il mio fare e il mio dire sono pubblici, se compiuti in pubblico, e non mi appartengono più.
Quindi Buzz rendendo percepibili le reti relazionali, innazitutto a me stesso, le ha fatte emergere dal calderone ambiguo su cui pensavo di avere magari un certo controllo, e ci obbliga lateralmente a diventare consapevoli. Induce segmentazione nell’indifferenziato. A me spetta decidere quanto voglio far trapelare di me in pubblico. Buzz ci costringe a esplicitare a noi stessi le nicchie ecologiche mentali e operative dentro cui posizioniamo i contatti amicali o professionali, quindi sta svolgendo una funzione educativa, poco da fare, come già Facebook e relativi scandaletti di pubblicazione di materiale inopportuno ci insegnano, e tutti ci siamo affrettati a comprendere le opzioni di privacy permesse dall’ambiente social specifico, dove i progettisti del software lasciano tutto aperto (in fondo, son luoghi pubblici, no?) e a noi spetta decidere quanto chiudere.
Per una volta, un’Etica della responsabilità di stampo nordico, che significa avere consapevolezza delle conseguenze delle nostre azioni, piuttosto che un’Etica mammona molto latina, dove tutto è strettamente regolato e agli utenti visti come adolescenti ribelli non resta che infrangere limiti per divenir soggetti adulti.
Qui non c’entra il senso di Colpa, roba da confessionale cattolico, privato, qui siamo in ambienti sociali, qui quello che funziona è la Vergogna, da espiare in pubblico.