Richard Heinberg per quanto riguarda la Transizione in sé e il problema del picco del petrolio, Lester Brown fondatore del WorldWatchInsitute e autore/promotore del “Piano B 2.0: una strategia di pronto soccorso per la Terra” (qui su Indipendenza Energetica potete trovare il libro tradotto e liberamente scaricabile), James Howard Kunstler, Albert Bates.
Della Transizione abbiamo già parlato su questo stesso blog, qui e qui.
Cristiano Bottone sul blog “Io e la transizione” definisce quest’ultima come
un movimento culturale impegnato nel traghettare la nostra società industrializzata dall’attuale modello economico profondamente basato su una vasta disponibilità di petrolio a basso costo e sulla logica di consumo delle risorse a un nuovo modello sostenibile non dipendente dal petrolio e caratterizzato da un alto livello di resilienza
dove la resilienza è
la capacità di un certo sistema, di una certa specie, di una certa organizzazione di adattarsi ai cambiamenti, anche traumatici, che provengono dall’esterno senza degenerare, una sorta di flessibilità rispetto alle sollecitazioni.
Va da sé, le società industrializzate sono caratterizzate da un bassissimo livello di resilienza, ovvero sono molto fragili, in quanto fortemente dipendenti da filiere (prodotti alimentari, energia, etc.) lunghissime, sostenute fondamentalmente da un’economia “drogata” fondata sul petrolio.
Ma si cominciano a vedere sorgere dei modelli di abitanza territoriale che provano a fare a meno del petrolio, ed ecco che dopo l’Inghilterra con le sue Transition Town (vedi qui un articolo relativo sul Corriere della Sera) anche in Italia stanno nascendo delle Città di Transizione, ne potete trovare informazioni sul blog Transitiontowns Italia, dove si provano a costruire o riprogettare cittadine a basso impatto ambientale, mosse da innovazioni tecnologiche miranti alla sostenibilità energetica e da peculiari approcci alla produzione nel settore primario, ad esempio secondo Permacultura. Utili anche i riferimenti alla mappa italiana degli eco-villaggi.
Tutto questo per meglio inquadrare le azioni di una economia solidale alla luce di nuovi approcci eco-economici (non solo teorici, come abbiam visto) in grado di riportare il senso dell’abitare all’interno di pratiche antropiche consapevoli della sostenibilità ambientale e della qualità della vita delle collettività umane.
Certo, oltre alla improrogabile riprogettazione ampia degli insediamenti abitativi e del funzionamento concreto dei flussi tecnologici di energia materia e informazione, esistono molte buone pratiche che è possibile adottare fin da subito, semplicemente modificando di poco, ma efficacemente, il nostro stile di vita e in particolare i nostri comportamenti come consumatori.
I Gruppi di Acquisto Solidale (GAS) in quanto esperienza di consumo critico intendono sollevare risvolti etici rispetto alla nostra partecipazione al Mercato, ma il modello che seguono potrebbe essere rivisitato, alla luce degli approcci alla Transizione.
Ecco cosa suggerisce Cristiano, dal blog Io e la Transizione.
Dai GAS ai GAST
È venuto il momento di cercare di spiegare questa faccenda dei GAST, premettendo che è qualcosa che mi gira in testa, ma che non ho avuto il tempo di definire completamente. Non ci ho neppure provato, perché una definizione completa dovrebbe maturare attraverso un bel lavoro di pensiero collettivo e il tempo per sperimentarne i risultati.
Sono abbastanza sicuro però che il modello dei GAS abbia compiuto il suo tempo e svolto egregiamente la sua meravigliosa opera di trasformazione culturale.
I GAS (Gruppi di Acquisto Solidale) hanno a mio parere una caratteristica molto precisa: nascono e si sviluppano come circuito di acquisto alternativo a un mercato principale. Nei GAS si ritrovano persone che vogliono compiere scelte più etiche e consapevoli, sottraendosi alle mille insidie del mercato della crescita.
Fin qui tutto bene, ma i tempi cambiano e anche grazie al prezioso lavoro dei GAS è arrivato il momento di passare alla fase successiva. Bisogna cominciare a contaminare e a trasformare il mercato “normale” quello da cui fino ora si cercava di stare lontani.
Nella logica dei GAS ci sono infatti alcuni aspetti che portano verso scelte che non sono sostenibili e che per la loro scomodità continuano ad escludere da questo circuito moltissime persone. Chiunque appartenga a un GAS ha sperimentato difficoltà in fase di ordine dei prodotti (specie se si tratta di prodotti freschi e deperibili), il peso delle gestione degli ordini stessi, la scomodità di ritirare la merce solo in una dato momento, ecc.
Spesso si generano per le consegne molti viaggi in auto, si percorrono molti chilometri e tutto questo non è molto sostenibile. Poi, mano a mano che un GAS cresce, si trova ad affrontare alcuni dilemmi. I più grandi affittano magazzini per stivare le merci e si trovano ad assomigliare molto a veri e propri grossisti (anche se etici).
Modifichiamo la formula
Così ho pensato che nel modello GAS si potrebbe fare una variazione passando da Gruppi di Acquisto Solidale a Gruppi di Acquisto Sostenibili di Transizione.
Sostenibili perché a mio parere il concetto di sostenibilità non riguarda solo la “meccanica e il ciclo” delle risorse. La sostenibilità deve e non può che essere anche un fattore sociale e contenere in sè solidarietà, etica, trasparenza, equità. Tutto il processo di acquisto deve essere “sostenibile”, se per avere una zucchina biologica si consumano 6 litri di benzina il processo non sta funzionando.
Inoltre il GAST dovrebbe essere integrato in una più ampia iniziativa di transizione del sistema (ecco la contaminazione del mercato attuale). Il GAST dovrebbe operare perché prodotti sostenibili arrivino nei negozi normali. La logica dal produttore al consumatore ha molti limiti. Funziona bene e risulta veramente sostenibile solo in certi casi particolari.
Parlando con gli agricoltori ci si rende conto che se oltre a coltivare questi devono gestire un canale di vendita, a un certo punto hanno bisogno di una strutturazione (che significa costi). Serve qualcuno che vada al Farm Market, che prepari i prodotti in un certo modo, servono tempo e soldi. Ciò che si pensa di risparmiare evitando il passaggio in negozio in realtà, nel migliore dei casi, si evita solo parzialmente.
Dal produttore al consumatore, sicuri che sia una buona idea?
I negozi sono nati in epoca preindustriale e hanno un preciso senso logistico. Credo che se ci si limitasse a un solo passaggio intermedio tra produttore e consumatore (cosa che in una logica di filiera corta mi pare possibile) i costi rimarrebbero ragionevoli e aumenterebbe notevolmente l’efficienza del sistema. Così zucchine, pomodori e pere prodotti da fornitori diversi sarebbero reperibili comodamente presso un unico punto vendita. Se poi questo punto vendita fosse in grado di gestire consegne a domicilio ben organizzate, magari con un veicolo elettrico rifornito da un bell’impianto a energia rinnovabili, ci staremmo avvicinando molto a una situazione di grande sostenibilità.
Ma la parola Transizione, nella sigla starebbe anche a indicare un certo tipo di sguardo complessivo di cui il GAST sarebbe portatore. Sappiamo che la resilienza delle nostre comunità dipende dalla ridondanza dei sistemi che sapremo costruire. E quindi il GAST dovrebbe operare per differenziare i sistemi di approvvigionamento alimentare sostenendo parallelamente alla “riforma” del mercato, la nascita di orti, fattorie sociali, la riscoperta delle verdure spontanee, la nascita di foreste edibili permanenti, l’autoproduzione, il reskilling, ecc.
Come fare tutto questo?
Il modello della Transizione fornisce già moltissimi degli strumenti necessari, principi di riferimento e un grande paradigma a cui ispirarsi. Se mancasse qualcosa lo inventiamo, che problema c’è?
Mi piacerebbe moltissimo che qualcuno organizzasse un grande Open Space con tantissimi “gasisti” per far nascere mille idee su questo tema. Credo che emergerebbero cose splendide.
Direi che è un’ottima idea, le premesse mi sembrano ottime. Convengo con l’approccio di apertura e di “tangibilità” di questa fase di transizione. Aderisco all’iniziativa e metto a disposizione tempo e risorse disponibili per elaborare l’idea e realizzare questo incontro di condivisione creativa. Chi altro c’è?