Comunicare la decrescita
Anche un imprenditore della decrescita ha bisogno di farsi conoscere; però ha bisogno di “utensili comunicativi” diversi dalla normale tecnica pubblicitaria. L’articolo propone come esempio il caso di un piccolo imprenditore con scarsissimo budget. Per illustrare quale strategia gli convenga usare, l’articolo propone un esercizio di stile; ci sono cinque o sei parole tecniche della pubblicità di cui, con la semplice aggiunta di una esse, si può invertire il senso: smarketing, s-target, s-business … Ne emerge una strategia che consente una crescita lenta e costante dell’azienda fino ad un livello ottimale, e a quel punto l’assesta e la rinforza.
Si può “fare pubblicità” alla decrescita?
La pubblicità è comunicazione a pagamento per influenzare le scelte degli individui e diffondere notizie utili ad incrementare i profitti economici dei suoi committenti.
E’ evidente che questa accezione è lontana mille miglia dalle basi etiche della decrescita: il modello sobrio di esistenza e la transazione alla pari tra produttore ed acquirente.
Ma un imprenditore della decrescita… non è forse vero che anche un agricoltore bio, un artigiano, un installatore di pannelli solari… se vuole sopravvivere deve comunicare che esiste, dimostrare di essere affidabile, fare bella figura, insomma farsi pubblicità?
Sì, si può; ma a un patto...
Noi siamo pubblicitari, cioè conosciamo bene il mestiere di convincere la gente a riempirsi la casa di porcherie inutili. Non ne abbiamo nessuna intenzione, siamo i disertori del nostro mestiere.
Purtroppo molte aziende etiche, ambientaliste e leali non sono molto brave a comunicare, e per questo sono più deboli; è un peccato, la società e l’ambiente hanno bisogno che i loro valori sopravvivano anche in questo mercato.
Noi possiamo dare forza a loro e loro possono dare forza a noi disertori.
La pubblicità ha un suo glossario tecnico, come tutti i mestieri. Che sia anglofono può suonare fastidioso, ma è fatale; il problema è un altro. Le parole della pubblicità sono tutte impregnate dall’idea che il successo commerciale consista vendere rapidamente, tantissimo e a qualsiasi costo.
Smarketing non è solo un gioco di parole per smarcarsi dalla marca e dal marketing. In comunicazione le parole sono utensili; se prendi il cacciavite, non puoi lavorare coi chiodi. Allo stesso modo se prendi la parola “target” non c’è verso, cominci a ragionare come un cecchino. Insomma, cambiare le parole con cui si formulano analisi, pensieri e strategie significa cambiare modo di analizzare, pensare ed operare.
La esse privativa davanti a un termine ne indica il contrario, come slegare, sgonfiare, scontento… viene dal latino ex-, significa uscire da un luogo o da uno stato. In inglese capita come abbreviazione di slow: lento, rallentato.
In particolare molte parole del mestiere della pubblicità sono intrise di accelerazione, di finanziarizzazione, di servizi parassitari, di estetica dello spreco e di spreco dell’estetica. Noi cerchiamo nel nostro piccolo di contribuire ad un cambiamento radicale, con qualche nuova parola-utensile che ci porti fuori da quella logica.
Tra queste parole nuove c’è “sbusiness“, che sta per slow business: è giusto guadagnare dal proprio lavoro e dalla propria inventiva, ma la crescita è sana se è lenta, tranquilla e armonica col contesto, come un albero nel bosco.
Poi c’è il concetto di starget: invertendo i ruoli il produttore diventa il target del cliente, invece di cercarlo in modo invadente e ripetitivo, si lascia trovare; non è facile ma è possibile, noi sappiamo come si può fare e infatti voi in questo momento siete su questa pagina, avete saputo trovarci in mezzo a milioni di possibili navigazioni offerte dal web.
E c’è lo sbranding, che è l’emancipazione dalle marche famose con etichette comuni di garanzia etica e ambientale e con lo scambio reciproco di visibilità.
Certo, non basta mettere una esse davanti alle parole dell’advertisement per cambiare il mondo, ma come vedete ci sono cinque o sei casi in cui questo gioco è davvero illuminante.
Del vecchio mestiere del marketer commerciale, è tutto da buttare?
No perchè, in buona o cattiva fede, è comunque uno dei pochi mestieri che conosce davvero la comunicazione, l’attenzione e la memoria. Alcuni ferri del mestiere non solo vanno salvati, ma addirittura diventano più importanti per chi usa media deboli ed economici. Il tuo messaggio deve essere tanto più chiaro, efficace e memorabile, quanto più “debole” è il tuo media budget.
Ad esempio
Prendiamo il caso tipico: diciamo che tu sei un piccolissimo imprenditore della decrescita, non nuoti nell’oro e proprio per questo hai veramente bisogno di farti conoscere. Diciamo che come tanti, sei bravo a fare il tuo lavoro, ma meno abile a comunicarlo. Naturalmente hai pochissimi soldi per farti pubblicità e anzi, faresti volentieri a meno di spendere anche quei pochi, ma è evidente che se non trovi abbastanza clienti devi chiudere bottega.
Il famoso R.O.I. (il ritorno economico dell’investimento pubblicitario) per te è molto più importante che per la multinazionale che ingorga la televisione generalista di spot milionari. Non è solo questione di scala, ma anche questione di rischio; alla multinazionale che lancia una nuova campagna conviene scommettere, di solito la posta in gioco vale ampiamente il rischio di sbagliare qualche serie di spot; tanto lei di scommesse ne fa tante su tanti prodotti in tante nazioni, quindi anche se perde qualche mano, vince comunque la partita; tu invece no: tu vuoi e puoi rischiare meno possibile.
Tanto per restare nel nostro gioco con la esse, ti occorre lo SROI, lo slow retourn of investiments; significa che fai poca pubblicità solo su media piccoli e di nicchia, su internet e su qualche radio: spendi poco, cresci un pochino, poi spendi un altro po’ … e cresci ancora un po’… fino ad arrivare ad una dimensione di scala adeguata per un onesto benessere; da quel punto in poi non ti serve crescere ulteriormente, devi piuttosto assestarti, rinforzarti e sperimentare qualche innovazione.
La pubblicità generalista non ti andrebbe affatto bene: immagina di vincere al superenalotto e poter fare pubblicità in TV: avresti un successo enorme per alcune settimane, ti troveresti a assumere dipendenti, ampliare il laboratorio, comprare macchine, ma poi tutto finirebbe altrettanto rapidamente: gente licenziata, il capannone che se lo prendono le banche… insomma il classico successo disastroso, di cui in Italia purtroppo ci sono anche troppi esempi. Infatti la pubblicità è solo un pezzettino del tuo processo produttivo e deve essere proporzionata al resto. E’ vero per chi, in un’ottica consumista, vende principalmente il brand, cioè la pura immagine idealizzata, è ancora più vero per te che, invece, ci scommetti la vita; per te è meglio che la pubblicità sia misurata per una crescita lenta e graduale, tranquilla, senza picchi e al riparo da eccessive perturbazioni.
Questo sistema funziona solo se la tua comunicazione è di ottima qualità. Ma attenzione, non è lo stesso tipo di qualità che si richiedere a un normale pubblicitario votato al business veloce.
C’è anche una qualità della qualità. E se lavori per la decrescita, lo sai.