Sergio Maistrello, conoscendo la mia accidia – era bello quando ero giovane, ed ero solamente pigro – circa un mesetto fa mi ha chiesto se potevo prestargli un intervento video di una decina di minuti, dedicato agli argomenti dell’abitanza digitale, da mostrare ai partecipanti di un master in digital marketing a Milano.
Ovviamente, me ne sono dimenticato per tre settimane. Quando GoogleCalendar mi ha avvisato con un sms, ho fatto spallucce: avevo davanti ancora dei giorni interi per fare brutta figura.
Poi mi sono ammalato, un raffreddore da trasformare il naso in rubinetto e la testa in una confezione di ovatta. Ma il video era da fare, perbacco. Ci ho provato un paio di volte, ma dimenticavo sempre il microfono chiuso oppure mi saltava la webcam, e oltre a me anche il pc ha preso un virus.
Soluzione drastica: ho continuato a sproloquiare liberamente, registrando, così poi da un’ora di girato ho ricavato quindici minuti di montato. Tutte le volte che starnutivo o tiravo su col naso o prendevo l’aspirina o mangiavo un paninetto con lo speck, le ho tagliate via, ho ritenute superfluo documentare tutto tutto. Nel delirio raffreddoso, mi ha sfiorato anche per un attimo l’idea di farne un videoclip musicale, un rap su una base funkettara di tosse e starnuti.
Quello che è rimasto, è qua sotto ovvero su Vimeo. Enjoy.
Cultura TecnoTerritoriale, Abitanza BioDigitale from Giorgio Jannis on Vimeo.
Questo video è un ottima introduzione ai tuoi studi e alla tua interessantissima visione. Lo consiglierò!
Grazie Paolo :)
Temo di prenderci gusto, dovrò controllarmi
La comunicazione è brillante, e il tuo positivismo tecnologico è di quelli che non semplificano, non riducono, ma aprono.
Però mentre ti sento parlare mi vien da chiedermi: chissà come interpreterebbe il gangherologo “le vie dei Canti(1)”, in termini di “abitare” un territorio da parte di una comunità. Tecnologia onirica?
E le interrelazioni che si creano con il passaggio di link o le tag dei motori di ricerca non somigliano un po’ a quelle?
Le tecnologie elettroniche non cancellano la linearità del pensiero logico-causale, ma certo rendono possibili intersezioni che ne fanno lo scomparto di una sintassi molto più ampia, ancora difficile da identificare in un profilo.
In generale, non ti pare che il web renda possibili di nuovo forme di “sincronicità” che un tempo si imputavano alla magia o al paranormale?
(1) Per chi non sapesse, è il titolo di un libro di Chatwin in cui racconta il modo particolare con cui gli aborigeni australiani si orientavano nel territorio: mappandolo con i canti sacri.
Valter Binaghi
Molto interessante e vorrei dire ben raccontato. Senti “piero angela” del web posso embeddarlo sul mio blog? Vorrei anche usarlo come punto di partenza per una discussione con alcuni insegnanti (pochi a dir il vero) con cui sto facendo alcuni incontri su blog, social network, ecc…
ciao Valter
Perché dovevo ancora risponderti su “Antropologia dei sensi” e penso di aver capito il riferimento che mi dicevi riguardo al mio concepire tutto quel discorso sulla soglia minima della semiotica, dove appunto una concezione del cammino dell’informazione dal percetto al concetto (tutti approcci lineari vecchiascuola, ma è per capirsi) a un certo punto incontra e deve tener conto dei codici interpretativi anche dentro il sistema nervoso, anche negli organi di senso.
Tipo a pagina 75.
Il libro dice cose giuste, che da altre strade altri stavano anche sperimentalmente confermando.
Eco stesso parla di funzionamento fisiologico, quando parte ad esempio dalla percezione visiva nei suoi ragionamenti su estetica e cose di arte, ma saprai.
Meglio ancora i neurofisiologi o gli studi sull’apprendimento di quegli anni – ho in mente la Gibson http://en.wikipedia.org/wiki/Eleanor_Gibson che già mettevano in luce quanto le abitudini si innervino.
Le abitudini si innervano.
Poi arriviamo più recentemente a cervello plastico, Sé sinaptici, neuroni specchio e robe così, e diventa ovvio che continuare a ignorare il corpo e il come funziona l’azione dell’ermeneuticare è proprio una direzione sbagliata
E come al solito siamo ancora prigionieri di schemi di pensiero che anche se prendiamo tutte le precauzioni critiche del caso, spesso ci accorgiamo che continuiamo a separare e tenere separato l’Io tuttora visto come fulgido campione della coscienza da un flusso indifferenziato di esperienza opaca, da organizzare e decifrare e leggere come altro da noi, quando è il pensiero stesso su cui tanto scommettiamo a fare cose che non sappiamo, o più sotto ancora prima della coscienza già avviene tanta semiosi da instupidire a pensarci.
“La Storia è quando si rischia l’affermazione, oltre l’ipotesi, l’identificazione di una Gestalt oltre il semplice processo stocastico per tentativi ed errori.”
Parole tue, in un mio commento. Ma non ho fiducia appunto in quell’Io che si staglia e nomina le cose come Adamo e quindi dà loro senso e quindi governa.
Perchè il paradosso di Adamo è appunto quello di aver chiamato le cose “col loro nome”, nella mitica lingua pre-babele, e quindi vi è motivazione nella produzione del segno. Quella lingua permetteva una correlazione oggi impossibile, dentro linguaggi che sanno di essere arbitrari rispetto alle cose, dentro linguaggi come il nostro dove una teoria del linguaggio nutrita di semiotica come quella di Eco si sbarazza del referente, e giustamente, in quanto ho sempre a che fare con entità culturali enciclopediche, nella fuga di interpretanti (idea peirciana, viva come un’eco dentro il pensiero di Eco ehehhe irresistibile).
L’unica è stare dentro il flusso, quindi a volte decisamente mettere a tacere non solo la razionalità ma persino i codici interpretativi, sgambettando la realtà o giocandola senza scrupoli, come ad esempio le solite avanguardie provano a fare quando sforzano i linguaggi espressivi, da Picasso a Tricky o Bjork.
Ecco, quando mi sento dentro il flow, come dicono i rappettari, allora ho molta maggior fiducia in quel gesto forte dell’interpretazione.
Anche le arti marziali o le concezioni sul lavoro dell’attore possiedono parole per identificare quella situazione. Ma tu suoni e canti, quindi hai capito.
Bellissimo il riferimento alla tecnologia onirica, di Chatwin che lì di quel libro non conosco.
Certo che sottoscrivo quanto dici: con sguardo competamente diverso, leggono il territorio e lo scrivono nella cultura con modalità sconosciute, e però vediamo un disegno, vediamo ricorsività e relazioni (e già buttiamo giù caterve di scommesse interpretative, e non tutte le controlliamo scientemente, anzi), e la facilità biologica che abbiamo come umani nel trovare pattern anche dove non ce ne sono è proprio una delle cose da tenere in considerazione, per non autofregarci.
Sincronicità? Io ne vedo molta. Ci son cose che risuonano dentro i territori che abitiamo (dentro quelle cose che non sappiamo di noi stessi, ad esempio) territori digitali mentali o fisici, indifferentemente. Ci sono aspetti di serendipity in Rete, ci sono percorsi di inseguimenti di link che sembrano in sé significativi, e a saper seguire i flussi arriviamo verso cose nutrienti, e il percorso come al solito ci cambia.