Partendo dagli interessanti commenti di Alberto Cottica, risalgo fino a First Draft inseguendo Enzo Rullani e la sua visione sull’attuale crisi economica.
Liberismo o statalismo sono vecchie ricette per pensare il problema e cercare soluzioni, dice Rullani. Anzi, questi stessi concetti come le parole che li esprimono recano con sé una visione novecentesca, ancora lineare e industriale, poco adatta a società postindustriali: si tratta di letture ed interpretazioni della realtà poco sistemiche, non in grado di cogliere in modo più ampio l’intero orizzonte del cambiamento socioeconomico attuale, incapaci di prendere appieno in considerazione le conseguenze della globalizzazione e l’attenzione per i beni comuni.
Come superare la crisi economica
Vi proponiamo di seguito un estratto dell’articolo di Enzo Rullani sulla crisi economica.
C’è in giro una vulgata della crisi che la considera quasi una disgrazia venuta dal cielo, o il frutto di una serie di esagerazioni, imbrogli ed errori, a cui, oggi, occorre rimediare.[…] Di qui la domanda ricorrente: chi è la colpa di tutto questo? E la risposta, sbagliata ma non per questo meno convinta: degli altri, naturalmente. […] La verità è che la crisi non è dovuta ad errori fatti da liberisti o statalisti in buona fede, né da sabotatori dei due modelli infiltrati nel meccanismo. Ossia ad eventi che possono essere “curati” espellendo guasti e guastatori dalla fisiologia dei due modelli ideali che ancora una volta si contendono il campo. […]
Le cause vere sono altre. Possiamo dire che oggi la situazione è particolarmente “dura” perché mette insieme, in realtà, tre crisi in una:
- una crisi di domanda da interdipendenza non governata, che ha sfasciato i rapporti tra domanda e offerta, portando a picco i valori attribuiti dai mercati agli assets materiali e immateriali di cui disponiamo (e che non sono spariti, anche se nessuno li vuole comprare, trascinando i prezzi verso lo zero);
- una crisi da squilibri competitivi non facilmente aggiustabili, dovuta alla perdita della distanza che isolava in precedenza paesi dotati di costi del lavoro assolutamente inconfrontabili e che oggi invece fanno parte dello stesso villaggio globale. Mettendo in moto dinamiche competitive di grande portata, tali da portare stabilmente fuori equilibrio molti capitalismi nazionali (tra cui il nostro), bisognosi di un drammatico riposizionamento;
- una crisi da insostenibilità, in tutti quei campi – e sono molti: ambiente energia, cibo, cultura, conoscenza sociale – in cui la crescita è andata avanti dritta per la sua strada, senza curarsi di rigenerare le sue premesse.
Come uscirne?
Bisogna da questo punto di vista far leva non su inesistenti “poteri ordinatori” o regole a scala globale (che forse verranno o forse no), ma sui legami che sono giù presenti e attivi a scala più limitata (Stati nazionali, sistemi locali, filiere, comunità, famiglie). […] Sul terreno della competitività, il rimedio da proporre fin da ora è che i paesi high cost si attrezzino per usare i loro redditi (più alti) per investire nella creazione di conoscenze originali e di reti di relazione esclusive, tali da compensare i differenziali negativi di costo del lavoro, rendendo “morbido” l’inseguimento tra paesi ricchi e paesi emergenti, che oggi rischia di trasformarsi in uno scontro cruento, per la sopravvivenza. Il made in Italy è destinato a soffrire più di altri la crisi di competitività. […]
Nessuno, infine, si è dato carico degli elementi dissipativi che erano impliciti nello sviluppo, nel momento in cui consumava beni comuni, quelli che gli anglosassoni chiamano commons: ambiente, risorse naturali, cultura, conoscenza sociale. Tutti beni che, non essendo presidiati da un proprietario privato ed essendo solo in parte coperti da una tutela pubblica, sono stati quasi sempre consumati dalla produzione senza che i beneficiari si dessero carico di ricostituirli. […]
Chi deve pensare a trasformare l’uso dissipativo di beni comuni in valorizzazione riflessiva degli stessi?
Questo è un grande interrogativo e un discrimine politico vero: altro che continuare la guerra dei cento anni, tra liberisti e statalisti. Pensiamo a questa nuova frontiera della riflessione economica e della politica: la comunità reclama un uso del mercato e dello Stato che sia funzionale alla valorizzazione dei beni comuni, e chiama le intelligenze personali e le relazioni sociali a fare la loro parte, affiancando le forme tradizionali di mercato e di Stato che dovrebbero sempre più essere innervate di aspetti comunitari.
Enzo Rullani
La versione integrale dell’articolo è disponibile qui.