E la gente che dentro fb ci lavora, cioè lo usa come spazio professionale, di che tipo può essere? Potrebbe trattarsi di un vecchio internettaro che ha già i suoi canali professionali (lavora con GDocs, Ning, blog, lifestreamer, mailgruppi, pagine wiki proprie, ambienti Moodle, piattaforme video tipo Mogulus o UStream, ed è capace di radunare tutto il flusso in qualche luogo identitariamente connotato) il quale scopre che gli piace facebook e quindi decide di fare tutto là dentro, oppure non gli piace e quindi continua le sue attività fuori e usa la community incriminata solo come piazza di risonanza.
Se invece è uno appena arrivato in Rete, facile che trovi fb perfetto per fare tutto, così ogni cosa che deve pubblicare la pubblica là. Poi magara impara a usare meglio la Rete.
Se qualche collega decide di usare professionalmente faceBook, anche io mi trovo a frequentare maggiormente l’ambientino. E non so se vorrei.
Se voglio andare in biblioteca, mi scoccia l’atmosfera da bar. Né d’altronde mi piace andare in un bar a fare cose da biblioteca. Poi gli stessi che vedo al bar sono gli stessi della biblioteca, ma non parlo di lavoro al bar, né a riunione sono solito aprir parentesi sui film preferiti o la giusta procedura per un martini cocktail.
Posso capire che tutta questa complessità di web (e siamo agli inizi dell’Era Digitale, neh) crei confusione, e quindi molto meglio sarebbe fare tutto dentro lo stesso contenitore, ma dobbiamo per forza farlo su Facebook?
Credo che quello che le persone vogliono dire in piazza appartenga alla comunità. Quello che vogliamo mostrare, delle nostre identità digitali, deve appartenere a tutti, e da tutti essere riconosciuto nella sua origine. Devo poter esercitare controllo sui miei dati personali, devo poter controllare le mie affiliazioni o partecipazioni (quello che faccio, quelli che frequento mi connotano nella mia identità pubblica), devo poter stabilire in che modo vanno propagate informazioni su di me e sulle mie pubblicazioni professionali o ludiche. Ma appartengono a tutti, è il dono che faccio alla mia collettività di appartenenza o ai miei gruppi di frequentazione, con la partecipazione attiva; non possono appartenere a qualcuno soltanto, nessuno può essere padrone delle nostre conversazioni, della nostra socialità. Qui nascono le idee e le opinioni e le relazioni, qui si costruisce il domani.
Se verrà confermata questa spinta alla socialità, alla convivialità che questi Luoghi web fanno emergere a quanto pare come caratteristica umana (che ci sia sotto più un problema di riconoscimento sociale e quindi autostima, oppure la vedete come mossa difensiva ad una profonda angoscia di separazione? esseri umani, animali sociali), nel futuro siamo destinati ad abitare via via i prossimi social network che verranno inventati, ciascuno di essi con qualche nuova idea socialutility capace di renderlo accattivante e magari leader del settore, e ci comporteremo come nomadi che a milioni si spostano da un ambiente all’altro, magari perdendo tutto quello che lasciamo indietro sulla vecchia comunità digitale, milioni di foto e video e parole originali? Assurdo.
Certo, bisognerebbe che qualche commissione europea dicesse: “Ecco qui un people aggregator, un software opensource per fare socialweb con tutte le funzioni di fb e tutto: ciascuno Stato provveda per legge a installarlo e mantenerlo, e tutti i cittadini usino questi Luoghi pubblici per fare socialità esattamente come fanno in facebook”. Poi tutti gli opensocial su scala comprensoriale, regionale, nazionale, continentale sarebbero trasparenti gli uni agli altri, e la mia identità digitale sarebbe identica su ogni gradino della scala. Complicatuccio.
Più semplice sarebbe obbligare tutte le piattaforme social (avverranno fenomeni di ri-stratificazione, dopo lifestreamer e communityglobali: dopo questo rimescolamento-adeguamento alle nuove abitudini osserveremo un riadagiarsi delle nicchie di frequentazione nelle reti di interesse personale) a rendere esportabili i dati, tutti, che immettiamo. Sarebbe quindi da rendere tutto il web trasparente, ma questa cosa neppure mi piace. A me però interessa che siano pubbliche le piazze, e libero ciò che in esse viene detto. Perché se vado in piazza, SO che sto andando in piazza. Se mi trovo in salotto piuttosto che in piazza, sono diversamente attento alle mie parole. Per dire, la legge distinguerebbe tra frasi ingiuriose pronunciate in pubblico o in privato, perché presuppone che il parlante sia in grado di rendersi conto della differenza. Molti per esempio non si rendono conto di star parlando in pubblico, sui network. Ma stiamo parlando sempre di pubblico e privato, di come le TIC modifichino la soglia, tra uno che parla al telefonino in mezzo al bar e l’altro che pubblica foto compromettenti di sé online. L’importante sarebbe come al solito provvedere educazione sufficiente a far sì che le persone siano consapevoli del destino delle loro parole, se pronunciate in piazza oppure nel salotto di qualcuno: nel primo caso dovrei poter contare su autenticità e referenzialità della fonte (so chi ha detto cosa e quando), sul controllo intersoggettivo, su tracciabilità del flusso, su identità digitali stabili di legittimi cittadini, nel secondo caso devo essere consapevole che della mia identità e delle mie parole il padrone del salotto con la festicciola può fare ciò che vuole (e allora forse sarebbe giusto negargli la presa certa sulla mia identità, e permettere nomi fantasia o anonimato).
Bene. Non immetterò contenuto originale in FaceBook, fino a quando non sarà possibile esportare tutto e mantenere il controllo sul proprio essere e sul proprio dire.
Mi hai aiutato a capire perchè in FB non mi sento a mio agio … vorrei stare in una stanza di amici ed invece ho la sensazione palpabile di essere in una piazza. Non sento di dominare la mia presenza in quell’ambiente.
So che si possono modificare le impostazioni, ecc … però rimane un disagio inconscio.
Laura