Economia dei commons
tratto da Braudel, il blog di Luca DeBiase
L’Economist dedica una pagina all’economia dei commons. Giusto sul finire del summit di Sapporo sui creative commons (vedi Jc e cc.org).
Il tema è lanciato dal vecchio studio di Garrett Hardin che nel 1968 ha scritto «The Tragedy of the Commons» per dimostrare che se gli utilizzatori di un bene comune sono razionali tendono a consumarlo perché se ne avvantaggiano in modo diretto e immediato mentre il costo dell’aumentato sfruttamento è spalmato su tutta la collettività. I fatti però non hanno storicamente dato ragione a Hardin (i commons che funzionano bene abbondano, dai pascoli alpini della Svizzera ai sistemi di irrigazione della Spagna e delle Filippine). Tanto che Hardin stesso, prima di morire, ha ammesso che il suo saggio avrebbe dovuto chiamarsi «The Tragedy of Unmanaged Commons».
Elinor Ostrom, nel 1990, ha scritto «Governing the Commons» per descrivere le regole che garantiscono a un bene comune di funzionare nel tempo senza finire nella spirale dell’ipersfruttamento: quanto un partecipante prende deve essere proporzionale a quanto dà; l’utilizzo deve essere compatibile con il funzionamento strutturale del bene comune; tutti possono influire sulle decisioni che riguardano il bene comune; si dà maggiore importanza alla prevenzione degli abusi che alla punizione per l’irragionevole sfruttamento. Tutte regole che in effetti tendono a finire oggi nelle concezioni riguardanti il più ampio concetto di sostenibilità. Che non a caso riguarda innanzitutto l’ambiente, il grande bene comune dell’umanità, ma anche i beni culturali e i beni relazionali, cioè la qualità delle relazioni sociali.
L’argomento peraltro si fa più complesso nel caso dei commons di tipo culturale. Un pascolo è comunque un bene comune preciso e non replicabile. Ma nell’economia della conoscenza, la registrazione di alcuni beni ne consente la replicazione a basso costo e senza apparente perdita di valore. (Se io ho un’idea, la posso dare a un’altro senza privarmene…). Il contesto culturale ricco di idee disponibili come beni comuni è chiaramente più produttivo nell’economia della conoscenza (non si producono nuove idee senza abbeverarsi a quelle che sono già state prodotte in passato). E’ vero nella scienza e nell’arte, ma lo è ancora di più nell’imprenditoria.
Il problema è che, sulla scorta dell’esperienza inglese delle recinzioni che ridussero lo spazio dei commons in campagna privatizzandone lo sfruttamento e lanciando un processo di intensificazione dello sfruttamento del suolo che portò alla rivoluzione agricola, da molti ritenuta preludio della rivoluzione industriale, l’industria culturale cerca il più possibile di aumentare lo spazio recintato dei beni comuni culturali (copyright ecc ecc).
In apparenza, lo sfruttamento privatistico dei beni culturali consente modelli di business scalabili che quindi generano ricchezze molto concentrate e molto ampie. Mentre i commons introducono regole orientate più alla sostenibilità che alla scalabilità, generando ricchezza diffusa ma non necessariamente in crescita veloce e concentrata. Dunque apparentemente sembrano una soluzione poco adatta all’economia abituata a ragionare in termini finanziari. Evidentemente, internet ha contribuito a rafforzare l’interesse verso i commons, anche perché ha ridotto la difendibilità delle concezioni privatistiche dei beni culturali registrati. Ma ha consentito anche di introdurre una più profonda riflessione sul tema del giusto equilibrio tra la parte comune e quella privata dei beni culturali. La privatizzazione dei beni culturali non è la soluzione migliore per garantire lo sviluppo di lungo termine nell’economia della conoscenza. Ma è chiaro che mentre i vantaggi della privatizzazione si vedono e generano lobby molto attive e concentrate, i vantaggi dei commons sono diffusi e vengono difesi solo dalla lungimiranza di gruppi culturalmente attivi e governi consapevoli.
L’Europa è un territorio piuttosto avanzato da questo punto di vista. L’esperienza europea del valore dei commons non va dimenticata. Da segnalare che Giangiacomo Bravo e Tine De Moor hanno scritto uno studio sulle ricerche relative ai commons in Europa.
Nel frattempo, però, si osserva come la quantità di lavori culturali prodotti con licenza creative commons è tale da aver creato un ambiente più ricco per tutto il sistema che avanza nell’economia della conoscenza. Non è necessariamente con lo scontro diretto che si ottengono risultati importanti nella strategia di riequilibrio tra beni culturali comuni e beni culturali privatizzati. Strategicamente, in realtà, è probabile che il riequilibrio avvenga proprio attraverso una sana e ricca produzione di nuovi beni comuni culturali.