Antropologia dei blog


Da NuoviAbitanti

Marino Niola, professore ordinario di Antropologia Culturale a Napoli (qui su Wikipedia), ha scritto per larepubblica.it un articolo sul mondo dei blog, sul loro significato sociale e sulle relazioni interumane che hanno luogo in Rete. Che poi si tratta sempre di un Luogo, appunto antropologicamente connotato.

Lungi da essere il solito sproloquio di certo giornalismo nostrano, dove i blog vengono nominati solo per aspetti scandalistici oppure con toni canzonatorii da giornalisti platealmente incompetenti riguardo le dinamiche comunicative in Rete e le Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione, l’articolo di Niola prova a tratteggiare la nascente “cartografia sociale” che emerge dal libero scambio di informazioni e di opinioni degli Abitanti digitali, dove l’aggregazione e l’interazione interpersonale sono motivate esclusivamente dalla partecipazione attiva da parte di ognuno alla condivisione di tematiche e alla frequentazione di campi di interesse comuni, ovviamente in modo indipendente dalla distanza fisica che separa gli interlocutori.
La società sta evolvendo, nel suo superamento glocale delle categorie spaziali tradizionali, e certamente concetti come “confine geografico” o “prossimità relazionale” vanno profondamente rivisti, in un epoca contrassegnata da fenomeni di telepresenza (web e cellulari) , dal primato dell’Informazione e della Conoscenza in formato digitale, dall’Economia dell’immateriale.

Purtuttavia sfugge a Niolo, ancora forse incantato dalla visione certo importantissima di una Rete relazionale a estensione planetaria, il concreto risvolto “local” di quella parola glocal (vedi Bauman su Wikipedia, glocalizzazione) più su accennata: esiste oggi la possibilità per chiunque, pubblico o privato, di aprire dei blog urbani o comunque dei luoghi-contenitori di partecipazione democratica delle collettività per la progettazione e la definizione collaborativa delle strategie da adottare per migliorare il proprio Ben-Stare sul territorio, da concepire ormai come tecnoterritorio, come una rete di rioni digitali che compongono paesaggi biodigitali attraversati da flussi di persone e di rappresentazioni mediatiche (vedi i concetti di Appadurai, antropologo, su Wikipedia).

Ben vengano, comunque, articoli come questo di Repubblica per muovere anche in Italia l’opinione pubblica, in un paese di scarse letture e tuttora ancorato alla televisione quale unica fonte informativa (ammesso che abbia ancora una tale funzione), alla comprensione delle profonde modificazioni sociali in atto sul pianeta.

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Villaggio blog, vista sul mondo
le nuove forme di dialogo

di Marino Niola

Fonte: larepubblica.it

“Dovessi spiegarti che cos’è il mio blog ti direi che è un luogo, riscaldato d’inverno ed areato d’estate, con un indirizzo e una buca delle lettere, finestre per guardarci dentro se passi nei pressi ed una porta aperta per entrare se ti andrà. L’insieme dei blog che leggiamo e di quelli che ci leggono è un villaggio particolarmente salubre fatto di abitanti che si siano scelti fra loro e non paracadutati lì dal caso”. Parola di blogger.
È evidente che il blog è molto più di un sistema di comunicazione. È un angolo di mondo, avrebbe detto Herder. O una forma di vita, per dirla con Wittgenstein. In entrambi i casi uno spazio di condivisione simbolica caratterizzato dai suoi usi, costumi, sensibilità, abitudini, codici sedimentati – ma prima ancora creati – e da un linguaggio comune. I blog sono a tutti gli effetti le nuove forme di vita prodotte dalla rete, degli autentici angoli di mondo virtuale.

Certo che il blog è un luogo di confronto e di scambio di idee, informazioni, pareri, servizi, ma è anche di più, molto di più. Questa forma di diario in rete – il termine è la contrazione di web e di log che significa appunto diario ma anche traccia – sta dando vita a una nuova cartografia sociale. Fatta di punti di aggregazione fondati sulla circolazione delle opinioni.

Qualcuno li considera un po’ come la versione immateriale dello Speaker’s Corner, letteralmente angolo dell’oratore, di Hyde Park a Londra, dove chiunque può montare su una cassetta di legno a mo’ di palco e predicare sul mondo in assoluta libertà. Occupando un angolo di spazio pubblico per dire la sua. Quella minuscola cassetta garantisce una sorta di extraterritorialità che consente a ciascuno di dire fino in fondo tutto ciò che pensa. A ben vedere il blog è proprio una occupazione di immaginario pubblico, una sorta di tribuna virtuale. E contribuisce a rivelare la forma dei nuovi spazi collettivi di una società che ha profondamente mutato le sue categorie spaziali e sta passando dalle divisioni alle condivisioni, dai luoghi tradizionali – territori fisici delimitati, confinati, sul modello delle nazioni – agli iperluoghi immateriali che ridisegnano le mappe del presente.

Nuovo luogo della condivisione pubblica in un tempo caratterizzato dalla scomparsa progressiva dello spazio pubblico tradizionale: un po’ circolo, un po’ palcoscenico, un po’ salotto, un po’ sezione di partito, un po’ piazza, un po’ caffè. I diari in rete rappresentano modi diversi di sentirsi comunità. Non più comunità locali, e localistiche, basate sulla prossimità geografica, residenziale, cittadina, ma su forme inedite di appartenenza.

Ecco perché il blog non è solo uno strumento del comunicare, ma è una potente metafora del nostro presente in rapida trasformazione e un simbolo anticipatore del nostro futuro. A farne un mito d’oggi è proprio la sua capacità di dirci qualcosa di profondo su noi stessi, di mostrarci con estrema lungimiranza ciò che stiamo per diventare anche se ancora non lo sappiamo con precisione. Nei grandi cambiamenti epocali il mito, la metafora, il simbolo si assumono proprio il compito di lanciare dei ponti verso quelle sponde del reale che ancora non vediamo ma, appunto, intravediamo. Anche se abbiamo già cominciato a viverci dentro istintivamente. In questo senso i comportamenti del popolo dei blog ci aiutano a cogliere quanto stiano di fatto mutando le stesse categorie di identità e di appartenenza: sempre meno materiali, sostanziali, fisse e sempre più fluttuanti, mobili, convenzionali.

E come sia cambiata la stessa nozione di luogo di cui viene oggi revocato in questione il fondamento primo, ovvero l’idea di confine naturale, in favore di quella di confine digitale. Il blog anticipa una realtà che non è più quella del paese, della città, del quartiere, della classe d’età, della famiglia, della parrocchia, del circolo. I bloggers si rappresentano come una comunità di persone che si scelgono liberamente e su scala planetaria. E in questa dimensione extraterritoriale intessono un nuovo legame sociale.
Comunità senza luogo? Niente affatto. È la vecchia nozione di luogo ad essere inadeguata. E assieme a lei quella apparentemente nuova di non-luogo che della prima non è che la figlia degenere. Perché è fondata su una idea pesante, solida, ottocentesca del luogo e della persona.

Un’idea che ha l’immobile solidità del ferro e non la mutevole fluidità dei cristalli liquidi. In realtà a costituire il tessuto spaziale, ieri come oggi, sono sempre le relazioni, mai semplicemente le persone fisiche. E oggi le relazioni sono sempre meno incarnate, sempre meno materializzate, ma non per questo scompaiono.

La liquidità della rete è la vera materia sottile della trama sociale contemporanea, e perfino di quella spaziale se è vero che oggi l’iperconnessione è il principio vitale che circola come sangue nel corpo del villaggio globale. I cosiddetti non-luoghi sono in realtà più-che-luoghi, super-luoghi, sono luoghi all’ennesima potenza, acceleratori di contatti, incroci ad alta densità, moltiplicatori di collegamenti tra bande larghe di umanità. È questa la cartografia wi-fi della nuova territorialità, la cosmografia del presente di cui Internet è il dio e Google è il primo motore immobile. Una rivoluzione recente ma che sta già cambiando il vocabolario dell’essere: dal to be al to google e, sopratutto, al to blog.

Non a caso bloggare è diventato un verbo. Il terzo ausiliare per chi è in cerca di casa, di lavoro, di visibilità, di posizione insomma. È la terra promessa degli homeless digitali, la nuova frontiera dei migranti interinali in cerca di hot spots, di porte wireless, di ambienti interconnessi. Un nuovo paesaggio fatto di camere con vista sul web. Proprio così una blogger definisce il suo miniappartamento virtuale. O un villaggio di villette monofamiliari dove si lascia sempre aperta la porta di casa perché chi ne ha voglia possa entrare a prendere un caffè. Altro che fine del legame sociale. La blogosfera è la traduzione della mitologia comunitaria nella lingua del web, la declinazione immateriale della società faccia a faccia: la nostalgia del paese a misura d’uomo in un download.

Frequentare i blog serve, fra l’altro, a smontare molti dei luoghi comuni sugli effetti nefasti della digitalizzazione della realtà e sull’apocalisse culturale che essa comporterebbe. Fine della lettura, tramonto dell’italiano, declino dello spirito collettivo. In realtà questo sguardo luttuoso sul cambiamento lamenta sempre la scomparsa delle vecchie forme e proprio per questo fa fatica a riconoscere l’intelligenza del presente.

A parte quelli specializzati, espressamente attrezzati a luoghi di cultura, palestre di discussione critica, gabinetti di lettura, atelier di scrittura, i blog sono in generale delle officine stilistiche e retoriche in continua attività, dove la capacità di persuasione e l’estetizzazione della comunicazione hanno spesso un ruolo fondamentale. “Qui sul blog è tutta un’altra cosa. Scrivo in modo molto diverso da come scriverei su un diario. Le persone che mi conoscono commentano e dicono la loro, e i pensieri pubblicati sono molto più profondi”.

Per quanto diversi fra loro, i blogger nascono dal linguaggio e vivono di linguaggio. Un regime democratico, dove ciascuno è opinionista nel libero mercato delle opinioni, senza gerarchie di posizione, senza ruoli, senza il peso dell’autorità. Dove ognuno è quel che scrive, dove tutti hanno pari facoltà d’interlocuzione. È la nuova utopia della libertà e dell’eguaglianza. Compensazione simbolica al malessere attuale della democrazia in carne e ossa.

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