Prendo spunto da un post di Bookcafè, il quale a sua volta richiama un articolo di Repubblica.
Ecco, metafore. Queste sì oggi ne servirebbero, capaci di far comprendere, in modo decisamente olistico, la radicale differenza di un mondo planetariamente connesso, capaci di far comprendere a molti, in termini professionali, la rivoluzione epocale che la specie umana sta affrontando, dove queste nostre generazioni per prime abitano i nuovi territori online. Per chi pratica ad esempio formazione sulle TIC – in azienda, a scuola, negli Enti locali – questa competenza va resa disponibile, va raccontata e mostrata e suscitata negli altri.
Quali metafore narrative usare per causare un simile cambiamento di comportamento percettivo, per innescare un nuovo abito comportamentale?
Per illustrare il nostro essere Nuovi Abitanti ho visto Gaspar Torriero a CitizenCamp proporre la metafora del pesce del Devoniano, ovvero la prima creatura un po’ evoluta che abbia provato ad avventurarsi sulla terraferma, e la similitudine regge, almeno per la sua capacità di sottolineare la radicale diversità dei nuovi ambienti di vita.
Per quanto riguarda invece il funzionamento del meccanismo, l’idea della “conversazione” sembra suggestiva, ultimamente. L’argomento qui riguarda l’idea-meme della “conversazione” quale modo migliore di intendere i sistemi complessi, si tratti del mercato o di internet, dei territori, della collettività in presenza o online.
Tratteggiare le dinamiche online comunicative e comportamentali come conversazioni vuol anche dire renderle più normali alla percezione, farli rientrare in un mondo manipolatorio dove le regole per agire sono da me ben conosciute in quanto parlante.
Diciamo che si tratta di una ri-naturalizzazione, tenendo però ben ferma l’idea che la “naturalità” è artificio, ars e techne che nascondono le tracce del loro passaggio.
La manovra retorica scelta, quindi, ci fa scegliere uno stile nei percorsi formativi, dove cerchiamo di avvicinare l’alieno oggetto/competenza da suscutare/trasmettere ai destinatari, vestendolo di conosciuto.
Tutto ciò può andar bene per suggerire dei modelli di funzionamento dei comportamenti umani complessi, ma ho dei dubbi sulla bontà di questa manovra retorica quando riferita alle tecnologie e alle tecnologie TIC in particolare.. Soprattutto se questa strategia mira esplicitamente a rinaturalizzare l’oggetto in un contesto percepito come naturale.
Il nostro non è un mondo naturale, è un mondo tecnologico, da millenni. Il nostro pensiero sostiene le proprie impalcature utilizzando tecnologie dell’intelligenza.
Perché seguitare a voler vedere le cose come aliene, per poi dover ri-camuffarle da naturali per renderle fruibili?
Preferirei alquanto, per rigor di logica e per bellezza estetica del fare, che fosse piuttosto pronta da subito, fin dalle scuole elementari, una competenza nelle persone, che le abitui a vedere e a riflettere sul carattere costruito degli ambienti di vita, sulle loro peculiarità di trasformazione e distribuzione/connessione di energia materia ed informazione.
Questo andrebbe raccontato: noi viviamo in un mondo tutto tecnologico, tutto intorno a noi è frutto di secoli o di giorni di continuo lavoro umano sull’ambiente, sugli oggetti e sulle persone. I manufatti, l’ambiente antropico, il linguaggio della tecnologia, la cultura tecnologica tutta reca una propria epistemologia, dove il mondo è tecnologico, io sono innanzitutto Homo Technologicus, ed il pensiero che pensa questa modernità fatta di ubiquità (oggi in almeno tre posti: quello fisico, quello creato dal cellulare che mi rende raggiungibile sul pianeta, quello del web dove allestisco identità e partecipo a conversazioni) è naturale, è connaturato al mio pensiero.
I fossi dei campi e i libri, le filiere produttive ed il cibo, gli alberi che vedo dalla finestra e lo schermo che ho davanti agli occhi sono tutti oggetti tecnologici. E la mia mente usa “tecnologie” per nominare e gestire la realtà. Io sono un artefatto.
Pensare invece di vivere in un mondo naturale, dove qua e là spuntano oggetti da cui proprio non è possibile levare la patina di “marchingegno tecnologico”, porta a camuffare questi ultimi, con una mossa che chiamo “la moglie di Frankenstein”, con vaghe caratteristiche emozionali o cognitive di tipo conosciuto, perché si tratta di umanizzare il mostro. L’alieno, per meglio dire.
Voler vedere la tecnologia come Altro da me, proprio la tecnologia che è ciò che fonda il mio essere umano, per poter poi avvicinarla nominandola malamente.
Nel campo della formazione al significato delle TIC tutto questo mascheramento della tecnologia costringe la sceneggiatura del formatore a considerare una prima parte destruens, volta a smantellare panico e pregiudizi, per poi costruire il clima friendly: un giro dell’oca. “Non preoccupatevi di conoscere l’html, sui blog è proprio come scrivere, al massimo fate copiaincolla da Word”.
Procedure per riposizionare l’oggetto nella mente dei discenti, degli interlocutori, camuffandolo e mentendo per renderlo digeribile. Quanta fatica, e quale errore pedagogico, nell’allontanare la comprensione dei fondamenti epistemologici della Cultura Tecnologica.
La tecnologia è la cosa più umana che c’è.
A volerla umanizzare ci si complica la vita.
Meglio lavorare sul contesto che sul messaggio.
Finché la scuola e gli insegnanti continueranno a pensare YouTube come informatica, non ne verranno a capo, tra l’altro: vedete a cosa porta una falsa coscienza?
un post interessante, curioso, ammirevole, che mi fa pensare e mi riempie di interrogativi. su tutti questi: e il technical divide? come potrà il 99% del mondo che non conosce i nuovi linguaggi avvicinarsi alla tecnologia senza passare attraverso un processo di “friendlyzzazione”? cosa ne pensi di chi dice che il compito della tecnologia è quello di mettersi al servizio di tutti? siamo noi tutti che dobbiamo metterci al servizio della tecnologia? la tecnologia è una religione?
Ciao larochelle
Il processo di friendlyzzazione può anche andare bene, ed infatti vediamo che i software ma anche altri oggetti tecnologici che hanno avuto successo (anche a scapito magari di alternative di maggiore qualità) sono quelli dove un grafico serio ha progettato una buona interfaccia.
L’ergonomia dell’interfaccia è scienza delicatissima, importantissima: pensa a quante lavatrici sono fallite perché un ingegnere e non uno psicologo/comunicatore ha disegnato male il pannello comandi, incorrendo nelle ire di casalinghe/i nonché in un apparentemente inspiegabile calo delle vendite.
Il problema semmai, come dicevo nel post, è rendere amichevoli le interfacce, naturalizzandole (cosa giusta, il ricorso ad una semiotica “naturale”, volendo camuffare l’aspetto tecnologico, nascondendolo.
fin dall’Ottocento il motore è brutto rumoroso e sporco, meglio nasconderlo sotto il cofano.
Nel Novecento la filosofia (poi si è ravveduta) per un certo tempo ha dipinto la Tecnologia come antiumana, nemico assoluto, senza riflettere a sufficienza sul fatto che in ogni caso la tecnologia è nostra invenzione e nostro strumento. La tecnologia è al servizio di tutti, perché tutti siamo tecnologi nel nostro rapportarci all’ambiente di vita… e tralasciamo il discorso delle nuove generazioni biodigitali e del mondo mediatico in cui nascono e crescono.
Semplicemente, tecnologizzando il mondo, colmando i gap, va tenuta ferma la consapevolezza che la tecnologia è sempre un dialogo con l’ambiente, con l’impronta ecologica, con il fatto che la tecnologia costruisce l’ambiente di vita, arredandolo: cerchiamo di evitare gli errori dell’Occidente (ciminiere, chimica selvaggia, TV e internet “naturali”) e cominciamo subito ad impostare una visione culturale capace di cogliere le ricadute esistenziali/antropologiche delle tecnologie, per ognuno di noi.
Ad esempio in questo momento sarebbe necessaria ovunque a scuola un po’ di sana Media Education (cinema, tv, internet, cellulare), ma figuriamoci… lo strumento dei nostri governanti è la censura, altro non conoscono.
La Tecnologia non può essere una religione, perché non si misura (come talvolta soprattutto la Matematica/Fisica faceva) con la metafisica, ma con il concreto ambiente, con i fossi e con le miniere e con le materie prime e con i procedimenti indistriali e con il modo migliore di risolvere un problema hic&nunc, sapendo che domani al ripresentarsi dello stesso problema il contesto potrebbe essere mutato, e sarà necessaria un’altra soluzione, secondo l’approccio della adeguatezza dei mezzi ai fini, dove tra questi ultimi ultimamente si è per fortuna fatto largo il valore dell’impatto ambientale.
Nessun sacro paradigma: la tecnologia fa lo sgambetto a sé stessa ad ogni piè sospinto, perché il significato del suo messaggio è sempre contestuale.
grazie jannis, grazie davvero.
per il post, per la ris-post-a…
per chi la conosce, la tecnologia non sarà mai una religione (e in questo ero provocatorio) perchè sa, come giustamente mi fai notare, che il suo significato cambia di contesto in contesto. però “l’ignorante”, io talvolta, sono costretto per la mia totale impreparatezza sull’argomento a dover confidare nella tecnologia come in un deus ex machina che arriva a risolvere problemi che altrimenti ci ucciderebbero. ecco, sì, avrei/avrei avuto bisogno di un po’ di sana media-education. però c’è pure chi sta peggio di me (e credo siano la maggioranza).
a presto
pietro
Che la tecnologia possa essere sia umana sembra che Galimberti & Co non l’abbiano ancora capito. Del resto da un paese dove Croce ha fatto scuola non ti puoi aspettare troppo.
R.