Ecco un bell’articolo di Sergio Messina, aka RadioGladio.
Vi ricordate? Era la prima metà novanta, e questo pezzo che usava frasi televisive (Kossiga) su una base elettronica fece scalpore.
Ma Messina è musicista curioso e moderno, e inoltre scrive pure bene varie osservazioni di argomento musicale e non solo (encomiabili le ultime ricerche socioantropologiche sul porno amatoriale ed il sesso virtuale).
Lo conobbi a Bologna, quindici anni fa, ad una specie di dibattito organizzato dal collettivo Damsterdamned presso qualche centro sociale, poi ci siamo scambiati due mail nel 2000, dove gli chiedevo lumi riguardo la sua produzione musicale a 8 bit, visto che al tempo “portavo avanti” una sperimentazione musicale basata sulla creazione di pezzi che stessero obbligatoriamente dentro un floppydisk. E se il mega e 44 di spazio era insufficiente, non mi facevo nessuno scrupolo ad alleggerire i file, tipo rendendoli mono oppure abbassando le frequenze di campionamento. La riflessione sul contenitore era dentro quell’azione artistica più importante del contenuto.
Beh, in questo articolo Messina prova a delineare quella che può essere considerata una forma di grammatica moderna, adeguata a rendere esplicite le indicazioni per le “partiture” della musica moderna.
Come sarebbe possibile, infatti, scrivere sul pentagramma un pezzo di Tricky, o le complesse dinamiche interazionali che un Dj (o meglio un MC, Master of Cerimony) intrattiene con la folla danzante di una discoteca? Come indicare le parti del discorso, morfologia semantica sintassi, di un brano fatto di campionamenti e batterie elettrroniche e sweep realizzati cutoffando frequenze? Ed il Buco, quando tutta la parte ritmica (cassa e basso) vanno via, e rimane un sequencerino con un ostinato melodico, oppure dei sedicesimi di hi-hat, in attesa del Rientro? Occorrerebbe inventarsi un nuov omodo di scrivere le partiture, un po’ come John Cage cinquant’anni fa, oppure certe ricerche etnomusicologiche su popolazioni extraeuropee.
Dagli anni ’80, quando tra Sonic Youth e Tuxedomoon mi son messo ad ascoltare De La Soul (grandi avanguardisti) e produzioni dance di tipo house (fatte con i campionatori) utilizzo come categorie di giudizio musicale tre concetti che oggi ho ritrovato qui: si tratta di Groove, Beat e Sound.
Diciamo così: ogni pezzo musicale possiede per forza un beat, perché la musica è innanzitutto una organizzazione del tempo, foss’anche un’opera di Chopin, dove però l’elemento melodico (che è già ritmo) è certamente predominante. Altre musiche, di altre epoche e luoghi, hanno invece via via sottolineato maggiormente l’elemento armonico (tipo le fughe del ‘600, ma anche certo freejazz o le suite progrock dei ’70)… la forte cadenza ritmica è sempre stata invece carattere distintivo della musica popolare, da ballo, sia che si tratti di gagliarde, saltarelli, furlana, polka, rootblues, oppure tecno.
Non confondiamoci con il Beat come stile musicale batteristico dei Sixties, caratterizzato dal colpo secco sul rullante tipo Ringo Starr (rimshot: famoso è l’aneddoto in cui James Brown, che di ritmo se ne intende, apostrofa Ringo dicendogli che i bambini di Harlem suonavano la batteria meglio di lui, perché usano lo stile bouncing, ossia sfruttano il rimbalzo della bacchetta).
Ecco, ci sono dei beat che a parità di bpm e di struttura ritmica (l’incastro peculiare di bassdrum e rullante) fanno subito muovere il piedino e venir voglia di ballare, altri no. Perché manca il Groove, ovvero la capacità di coinvolgere l’ascoltatore (ecco perché nella mia grammatica musicale concepisco il groove come elemento della Pragmatica, ovvero di quella parte della grammatica che si occupa dell’effetto dei linguaggi sul mondo e sulle persone, sui comportamenti).
La mia ultima categoria è il Sound, ovvero semplicemente la pasta sonora (elementi morfologici) degli strumenti utilizzati nel brano da analizzare.
Un gioco simpatico è questo: quando si lavora con dei sequencer midi, una volta create le tracce con una tastiera o con un altro tipo di interfaccia, diventa semplice cambiare il suono dell’esecuzione, sostituendo ad esempio le congas con i timbales, i pianoforti con i clavicembali, una chitarra acustica con una elettrica (che in midi tuttora non suonano bene)… si tratta quindi di ragionare sull’arrangiamento, e si giunge a comprendere come la sonorità del pezzo, il suo Sound, influenzi completamente il tipo di storia che quella canzone sta per raccontarci.
Sergio Messina aggiunge nel suo articolo due interessanti elementi, tipici della musica dance elettronica, ovvero il Buco appunto e il Capatone, che però a mio avviso riguardano più le configurazioni discorsive del testo, ovvero la superficie del racconto, il suo modo di presentarsi e di narrarsi (essere narrato), quindi elementi di una grammatica situazionale maggiormente legata alla circostanza di enunciazione (vi sono casi di debrayage, per esempio, proprio nel modo in cui il DJ sul palco, sentendo il polso della dancehall, modifica la propria esecuzione in relazione al contesto).
Vedremo, ne parlerò.
In ogni caso, bravo Messina.
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…non riconosceremo il prossimo Mozart dalla bontà delle sue cadenze o dalla sublime arte delle sue fughe, ma dalla velenosa inesorabilità dei suoi Groove